Personale 1991 – Galleria La Nuova Sfera – Milano

Sarà perché Giorgio Occoffer l’ho meglio conosciuto per sale cinematografiche che per gallerie (che egli frequentava, più assiduamente di me, insieme al comune amico Paolo Naselli, un pittore che ci ha lasciato troppo presto), io lo assimilo, lo coniugo, lo vedo… al cinema.

E i suoi quadri, maturati nel corso di una ricerca ultratrentennale – mossa da influenze sironiane ma ben presto allontanatasi dalle “riprese in esterno” -, mi sembrano sempre singolari fotogrammi.
Vi si riflettono tensioni ideali e sottili angosce, vi si leggono momenti di disperazione e pause di serenità, vi si alternano astrazioni e concretezze legate dall’amore per la materia e per il colore, vi si colgono eco di un post-antico dai richiami più vari (un po’ di espressionismo, un po’ di cubismo, un po’ di costruttivismo…), amalgamati o rimossi da una visione personale, da una interpretazione sempre e giustamente “insoddisfatta”, da una modulazione irrequieta. Quindi, sono pittura, dentro e fuori dei canoni e delle regole.

Eppure il richiamo al cinema continua a suggestionarmi.

Ho sbagliato dicendo “fotogrammi”, dovrei dire sintesi ottiche e cinetiche.
Dovrei parlare di un obiettivo dalle lenti deformanti o sfaccettate al punto giusto per consentire effetti di accumulo, rifrazioni irreali della realtà. Dovrei riferirmi ad angolazioni forti, prese dall’alto e dal basso, di sbieco e di sguincio, dove il soggetto si esalta e si comprime, rende sempre conto di un alto-da-sé.

Dovrei parlare di piani-sequenze, non solo perché l’andamento è spesso regolare o ciclico, ma anche perché il quadro racchiude un percorso, la possibilità di leggervi una storia; o addirittura non chiude, e smargina, e prosegue idealmente oltre i limiti di quel piccolo schermo di tela che è pur sempre un dipinto.

Poi potrei aggiungere che il quadro muta di intensità e di valore a seconda di come si dispone lo spettatore, l’osservatore; del “posto” (anche in senso metaforico) che egli assume prima di esercitare la facoltà dello sguardo.

Ancora dovrei dire che qualche volta pare che il fermo-immagine consenta di cogliere nella sua aleatoria fisicità una dissolvenza incrociata: fra un prima e un poi, fra un essere e un voler essere, fra qualcosa che sfugge e qualcosa che imperiosamente prende ad affermarsi (il termine è volutamente ambiguo).

E, infine, non c’è cinema post-antico o, se vogliamo, post-classico che non faccia il suo bravo ricorso agli effetti, ai fumoni, alle luci spioventi, a quel tanto che gioca per rendere la visione (riprodotta) simulacro di visione: ebbene, Occoffer – perché negarlo? – non si sottrae a questa lucidità dell’espressione.
Ho toccato il fondo. So benissimo che la ricerca del pittore, di questo pittore, va oltre il mio tentativo di illustrarla, che bisogna scavare oltre le apparenze, che i segni vanno oltre le cose.
Ma da un critico cinematografico prestato a un’arte che viene prima della settima non potete aspettarvi di più.

Lorenzo Pellizzari

 

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